mercoledì 16 dicembre 2009

STARRY NIGHT



Ho scoperto Van Gogh durante l'adolescenza: non certo grazie al micragnoso insegnamento di storia dell'arte al liceo, ma per folgorazione istantanea nello sfogliare libri d'arte in un'ormai scomparsa libreria della vecchia Udine anni '70. 
Io e un mio amico giungevamo in città dai nostri paesini collinari alle 7.20 (levataccia alle 6.00, corriera alle 6.40!) e, nell'attesa che la scuola aprisse, c'intrufolavamo nella vecchia libreria di via Piave, dove un'anziana signora tolmezzina (a che ora si svegliava, lei?!) ci accoglieva con la sua burbera e taciturna cortesia a serrande semiaperte e ci lasciava girovagare tra gli scaffali dove potevano scartabellare a nostro piacimento libri d'ogni genere, dimensione, contenuto e fattura. Eravamo pessimi clienti, ovviamente, stante la nostra giovanissima età e la cronica penuria di soldi, ma l'anziana proprietaria non sembrava dare troppo peso alla cosa e ci assecondava, lasciandoci girovagare e curiosare anche nel retrobottega delle scansie, mentre accendeva il riscaldamento o spolverava o compilava scartoffie propedeutiche alla sua giornata di lavoro.

Sono  trascorse ere geologiche da allora, ma a ripensarci è stupefacente riconoscere che certi, magari trascurati, imprinting sono fondamentali.
Così, oggi, nella mia amatissima vecchia casa di Zovello, dove adoro ritirarmi a leggere, scrivere, suonare, pensare, campeggia proprio di fronte al caminetto una buona riproduzione in stampa su tela di Starry Night di Van Gogh (l'originale non posso permettermelo, purtroppo!).

Spesso, mentre sto leggendo o scrivendo o suonando,  m'incanto a bocca aperta, come ogni bambino, a contemplare il quadro nella sua struggente, autentica e onirica bellezza e "il naufragar m'è dolce" in quelle girali-spirali di stelle-lune-soli vegliate dall'angosciante ombra del cupo cipresso fiammeggiante, mentre il paese - il gno paîs - sembra dormire in una cornice fiabesca da presepio punteggiata di luci solitarie con il campanile-ago a perforare ostinatamente e dolcemente il cielo.
Il tutto affondato in una dominante blue-blues, con l'ostinato, ma perdente, rivolto del giallo.

Allora non sapevo, ma poi ho scoperto che questo quadro ha ispirato un'altrettanto intensa e struggente canzone di Don McLean, Vincent.


Il buon Roberto Vecchioni ha più tardi "tradotto" e "tradito" (e in parte modificato melodicamente) questa canzone con la consueta sensibilità, ma anche con l'allure piuttosto ruffiana che spesso lo caratterizza, trasformandola in un'immaginaria emozionante lettera di Gauguin all'antico amico Van Gogh.
Personalmente continuo a preferire la versione di Don McLean.



sw

domenica 29 novembre 2009

Ce stufe

Ce stufe. O ce stufadice, s'o vês miôr.
In chestis ultimis setemanis, ancjimò polemichis sul furlan, lenghe e leteradure, premi S. Simon e v.i. .
Ce ch'o pensi in gjenerâl de cuestion, lu ai scrit culì za fa il 16 di otubar dal 2007.
Ad ogni bon cont, daspò vê let e scoltât i ultims intervents, soredut dai blogarìns (cussì si son batiâts i bloggers par furlan...), o scuen dî ch'o soi restât avonde scaturît, si ben no masse - ch'o soi purtrop vecjut e, ma la fe no, scjalterît! -, de parzialitât, de ande smafare e des pratesis di tancj ch'a si crodin in dirit di dâi simpri e dapardut flât a la lenghe: llôr, che ben s'intint, no chê furlane ;-)... !

Fantats, us sconzuri, leiêt, studiait: nissun al è mai muart a sun di lei e di studiâ. 
Magari Leopardi..., ma no olçarês migo frontâ il paragon!! 

Si fâs par mût di dì (cun Riedo, che Diu lu vedi, e pardabon, in glorie!)...

sw

venerdì 27 novembre 2009

Quasi nessuno lo sa, ma io sono uno scrittore di canzoni.

La poesia e la canzone popolare hanno beffeggiato per secoli il potente, l'ipocrita, il servile, lo scudiero: hanno cantato la vita, l'amore, la rabbia, l'impotenza, l'orgoglio dell'errore, la voglia, la nostalgia, la necessità...
Non hanno modificato sostanzialmente il mondo: per cambiarlo ci vogliono potere, soldi, acquiescenza, pragmatismo, faccia tosta (e un cambiamento a questo prezzo, infine e magari, non è poi così auspicabile...).
La poesia e la canzone popolare, per una sorta di benedetto e beffardo codice genetico, non li hanno quasi mai o li rifiutano.
E' un'affermazione risibile e irrilevante nell'Italietta di oggi, quella che crede solo all'odore dei soldi, al successo,  alle raccomandazioni, all'impunità.
In realtà, e purtroppo, non solo di oggi, perchè mio nonno ricordava che il suo, per sopravvivere, era costretto spesso a  ribadire: "Jo no viôt nie, no sai nie e viva l'Austrie!".

Se è così, io ringrazio i miei avi che, barcamenandosi a fatica, sono riusciti a prolungare le generazioni sino alla mia e riconosco d'esser loro debitore se sono qui a digitare s'una tastiera queste parole.
Ciononostante, mi professo epigono del tutto inaffidabile e non garantisco di perpetuare il modello.
E' da generazioni che siamo violentati a pensare che primum vivere...
Se la condizione è questa, allora tutto può, obtorto collo, essere accettato, tutto può passare, tutto può essere deglutito.

Ho avuto dei maestri, quanto si vuole imperfetti, ma che mi hanno insegnato l'importanza della dignità e della ricerca - costante, faticosa, claudicante - della coerenza.

Chissà...
Magari sono solo cazzate,  ma stasera scrivo, suono, canto e non mi sento in vena di accondiscendenza...




sw

giovedì 19 novembre 2009

Ci sono canzoni che fatico a ricordare:
questa, invece, non la so dimenticare..




Don Henley - The End Of The Innocence (Live... di zocomoro


w

giovedì 12 novembre 2009

THE HUMAN SIDE

We are
on the human side
baby
and this is
our limit
and our pride.
Yes, we live
and we die
we laugh
and we cry
but above all
so unconsciously
we glide...

(18-12-1994)

sw

ADIEU




Come prevedevo alcuni post fa, ho finalmente disattivato Facebook, anche se smantellare definitivamente l’account con tutti i suoi contenuti risulta sostanzialmente impossibile.

Liberi liberi siamo noi, sì, ma liberi da che cosa...? cantava un Vasco d’un temps e, per quanto non sia un estimatore acritico del rockettaro di Zocca, la domanda mantiene tutta la sua inquietante attualità.
Per quel che mi riguarda, una risposta - limitatamente all’onnipervasiva invadenza di Musedilibri – me la sono data.

C’ero approdato su sollecitazione di un mio ex allievo, eccentrico e geniale la sua parte, attualmente fisico nucleare e ricercatore in un laboratorio internazionale in quel di Uppsala.
Straordinario Facebook: in poche settimane mi ha consentito di riprendere contatti virtuali (e di contribuire ad organizzare gradevoli cene reali!) con persone che non vedevo e sentivo da anni e che accorrevano a frotte a profferirmi la loro richiesta di amicizia!

Con alcuni sono riuscito a intavolare piacevolissimi ed emozionanti rapporti epistolari... come riavvolgere d’un lampo e magicamente il filo del tempo e per loro, lo riconosco, un po’ mi dispiace d’aver dato l’addio a Facebook, ma è un dispiacere di breve intensità e durata.
Infatti, quasi immediatamente mi sono reso conto che la serqua di cazzate, idiozie e futilità circolanti a pieno ritmo sul popolare social network erano di gran lunga e massicciamente superiori alla mia limitata soglia di tollerabilità ed al tempo a mia disposizione per assecondarle o contrastarle.

Inoltre, stante che molti dei sedicenti “amici” virtuali erano miei ex studenti, riconosco che non mi entusiasmavo granchè a vederli in maggioranza (con alcune lodevolissime eccezioni) cavalcare entusiasticamente la marea montante, perfettamente a loro agio – mi par di capire – nella vacua allure coprolalica e kenolalica che avanza inarrestabile. D’altronde, è giusto e forse necessario: è il loro momento di sperimentare cosa c’è al mondo e di sentirsi “liberi” di spendere o buttare il tempo e le energie come meglio credono. Più tardi si capisce che quel tempo non tornerà e si poteva impiegarlo meglio, ma per crescere sono indispensabili gli errori e i rimpianti e pare non ci sia modo di evitarli in anticipo.

A onor del vero, tuttavia, su Facebook spadroneggiano anche distinti gentiluomini e gentildonne della mia generazione o di quelle circonvicine che se la godono un mondo in quel frenetico calderone, felici come pasque di poter regredire alla lontana adolescenza, se non all’infanzia.
E ci sono anche alcune (pocucce...) persone consapevoli che utilizzano il social network per promuovere e diffondere manifestazioni culturali interessanti, per attivare iniziative importanti o gruppi d’interesse meritevoli di considerazione: il problema è che, per godere di poche perle, le devi scovare-scavare a fatica dentro una valanga inarrestabile di liquame.

Si dirà: ma potevi liberamente rifiutare l’amicizia, gli inviti, le segnalazioni che ritenevi oziosi e idioti. L’ho fatto, miei cari, l’ho fatto finchè ho potuto: decine e decine di preziosi minuti (che alla fin fine sfociano in ore) spesi a scrollare lunghe liste di nomi, gruppi (i più assurdi e inverosimili), eventi, test (aberranti), richieste di annessione al birthday calendar e altre amenità da valutare e spuntare lì per lì o, nel dubbio, da lasciare in quarantena per qualche altro giorno, o settimana, o mese, o...
Per uno che ne cassavo, almeno dieci di nuovi ne spuntavano. Insostenibile e defatigante.

E, d’altra parte, quando vedi materializzarsi un nome sullo schermo che ti riannoda a un frammento della tua vita, nel bene o nel male, comunque sia, come fai a dire di no? E’ su questa subdola coazione psicologica che si fonda il successo esponenziale di queste briareiche seducenti creature virtuareali del Web 2.0.
Come si fa ad avere 100, 150, 500, 1000, 15.000... “amici” ?!
Tragicomica idiozia.

Gli amici e le persone che ami o t’illudi di amare (e viceversa) sono giocoforza pochissimi e di prosaica carne ed ossa, di parola e sentimenti. Perchè gli esseri umani - giova talvolta ricordarlo - sono limitati, fragili e mortali, non onnipossenti, perennemente interconnessi, globali e virtuali.
Quando stai male, quando ti senti solo, quando ti senti strangolare nel cappio sempre più stretto della tua incomputabile, ma irripetibile, vita d’uomo, cosa ti può veramente aiutare: una relazione astratta e virtuale, due parole di circostanza che si materializzano s’uno schermo o la mano di un amico, di un amore, di un figlio o di un fratello che accarezza la tua?

C’è poco da fare: sto invecchiando e, per colmo d'ironia, ne sono orgoglioso e non farei il cambio con me stesso più giovane e neanche con la giovinezza dei miei benamati studenti.
Se proprio sentite in modo intollerabile la mia mancanza all'interno della rete socialvirtuale, non credo che avrete molte difficoltà a rintracciarmi nella prosaica realtà: magari ci sediamo al tavolo di un bar, ci guardiamo negli occhi e ascoltiamo le nostre voci che s'intrecciano...

sw


lunedì 9 novembre 2009

ANTÎL




ANTÎL

I plâs di stâ sentât cu la schene sul antîl di piere, tra lûs e scûr, cuant che dibot scuasi nissun lu viôt.
Al spiete cence presse che i pîts di cualchidun i sgarmetin dacîs, sbrissant sul ciment carulât di chê strissule di marcjepît.
Cualchidun al traviarse a la svelte, juste un moment prin, e lui al salude chei e chei cul so “mandi” e la gheade francese.
I plâs d’intivâ lis blestemis dai cjocs e i zuiadôrs di more ch’a rivochin de ostarie di Turo e ancje i glons de glesie di S. Maur, pençs di podê tocjâju, cundut che la glesie e sedi simpri vueide.
Cuindis agns di lavôr e vincj di stocs par prionte, ma chel sotet di gale, il pidignûl di Malie, lu à cjolt lui, parie cu la stale fraide, l’ort pustot e il cjôt.
Un bon afâr par cui che lu à vendût.
“Pai, pai! Ven a viodi ce ch’o vin cjatât! Ce covential chest imprest ca, po?”
Lui nol à mai viodût un rimpin pal fen e ur berle di stâ atents, che a podaressin fâsi mâl.
E i ven simpri gole di ridi cuant che la femine lu clame a cene, dongje dal spolert ch’al busine a planc.
Cuissà ce ch’al spere, sul antîl di piere, il neri di Teôr.


Il sghirat

giovedì 5 novembre 2009

MATURITA'

E’ più o meno una cinquantenne. Di bell’aspetto.
Bionda, più di quanto naturalmente si sospetti, truccata e acconciata a puntino. Capelli fluenti, virgola magistrale da coiffeur sotto il lobo dell’orecchio, sorridente e (in qualche angolo criptato) desiderabile.
Io me n’andavo, sanza sospetto, a prelevare un centinaio di euro al bancomat, e dio sa quanto volentieri ne farei a meno, stante gli attuali chiari di luna...

Parla ad alta voce, rivolta all’altro lato della strada.
Sul marciapiede dirimpetto un’altra signora bionda (a caschetto, stavolta) con al fianco attediata figlia adolescente che sorride, svogliata quanto basta, a comando.

- Allora, a Franco, com’è andata...?
- Eh, non ha ancora finito! Mercoledì gli orali....
- Sono sicura che andrà tutto bene: farà un figurone, vedrai!
- Mah, non lo so... Lui si accontenta di uscire fra il 60 e il 70... La scuola, per lui, non è mai stata un... il...

La parola latita, il termine-lemure evocato non si materializza.

La bionda a caschetto annuisce e sorride. Anche la figlia, a comando.
- Ciao!
- Ciao.


songwriter

giovedì 16 luglio 2009

FINIS TERRAE La stagione avanzava incurante e l’inverno si preannunciava gelido e spietato. I vecchi sapevano che non c’era abbastanza fuoco per tutti e chi fosse stato colto di sorpresa dalla galaverna non avrebbe avuto scampo. A dire il vero, sapevano anche come tentare un’estrema difesa, rimpolpare alla buona e alla svelta le scorte di legna, dormire in tanti abbracciati in un letto, rincalzare porte e finestre perchè reggessero meglio l’urlo del ghiaccio e del vento... Erano inguaribilmente stanchi, ottenebrati, sfiduciati, e non avevano più voglia d’insegnare. S’imparano e sdimenticano troppe cose lungo una vita... Si scrutavano attorno accigliati e sospettosi. Ringhiavano inesorabili che non c’era nulla da fare, a niente valeva illudersi: qualcuno quell’inverno – come sempre – doveva morire. “E’ doloroso”, dicevano, “una sventura tremenda, ma alla crudeltà dell’inverno non tutti possono scampare...”. Mentivano d’innocenza. E in cuor loro speravano di farcela, di non essere i più facili bersagli del destino. I giovani non capivano, abbozzavano, annaspavano, arrancavano. Frastornati ridevano, imprecavano, strofinavano le mani, ci soffiavano dentro, suonavano, ridevano, battevano i piedi a tempo, fiduciosi nel raga di un disgelo. Mentivano d’innocenza. Maledivano i vecchi perchè lesinavano la legna e la rivendicavano per loro, ma non sapevano come fare a procurarsela da soli. “Necessità aguzza l’ingegno” è stolida banalità se nessuno, davvero, t’insegna. I padri e le madri guaivano, nella morsa sempre più soffocante d’una intollerabile medietà: amavano i padri e i figli, ma gli uni propiziavano, scientemente o meno, la fine degli altri. E loro...? Che fine avrebbero fatto loro? Così la galaverna arrivò. Raggelò i rami e i miti. Il tempo si fermò sgretolando, come un iceberg, le leggende analogiche delle spere di metallo... Cominciarono a morire. Dapprima - e più rapidamente - i giovani: con quattro stracci addosso, senza un tetto, senza un letto, senza un fuoco, agli angoli delle strade trasformate in sconfinati deserti di ghiaccio. Poi, i padri e le madri, implorando sempre più flebilmente pietà per sè e per i loro figli. Infine, i vecchi, che l’avevano detto - e lo ripetevano arrangolando nella tosse - che non c’era più speranza...
Qualcuno abbozzò un conato di rivolta e tentò l’assaltò alle case dei vecchi per impadronirsi delle stufe, delle coperte, delle scorte di legna. Invano. I vecchi erano mortalmente stanchi, ottenebrati, sfiduciati, ma avevano paura, potere ed armi e non esitarono a sparare sul loro futuro: mors tua, vita mea. Mors nostra. Prima d’irrigidirsi nei rantoli dell’ultimo respiro, sulla retina fosca si materializzò un’immagine che li sconcertò e sorprese: scivolando leggeri sul ghiaccio si vedevano arrivare alla spicciolata, incessantemente, gruppi d’uomini dai tratti sconosciuti, provati ma vivi. Si reggevano l’un l’altro e parevano adusti e adusi, per lunga inauspicata esperienza, a fronteggiare la galaverna...

venerdì 12 giugno 2009

Scrut(in)are stanca

Sono stanco. Conclusi da poco defatiganti scrutini finali. Ma noi prof., si sa, per la gente comune in odor di qualunquismo, non lavoriamo. Siamo degl'intollerabili buontemponi, parassiti sociali con "tre mesi di ferie all'anno". La cosa più buffa (?!) è che me l'ha ribadito qualche giorno fa un'ineffabile A.T.A. (terrificante acronimo, lo riconosco: sta per personale "Amministrativo Tecnico Ausiliario") che, alla mia timida richiesta di un "permesso breve" di un'ora (il primo che richiedo in diciassette anni di insegnamento...), ha sottolineato che le piacerebbe fare il cambio con me (perchè noi - lapalissiano evidente sottinteso - non facciamo un c...o). Io, invece - chissà mai perchè! -, farei volentieri e immediatamente, per mero amor d'antidosis, il cambio con qualche A.T.A. di mia conoscenza: curriculum di ben 8 (defatiganti e periclitanti, ohibò e anzichenò!) anni di studi alle spalle, turni di 6 ore al giorno, mansionario limitato e rigoroso, licenza di cazzeggiare ad oltranza, guardare la TV in orario di servizio, ascoltare piacevolmente la radio, smanettare al computer peculon peculoni: se, per caso o giocoforza, sono costretto ad approdare nelle sue plaghe durante una mia ora di servizio non d'insegnamento (consuetamente, per inveterata abitudine a non sprecare il tempo, in tali circostanze correggo compiti, preparo lezioni, progetti pluridisciplinari, leggo saggi, ricevo e dialogo con i genitori dei miei ragazzi, aggiorno percorsi di valutazione e altre "cazzate" similari), credete che spenga il computer, la radio o la TV o la pianti di berciare d'insulsaggini? Nossignori! Stante che noi, docenti, non facciamo un c...o, per quale ragione il gioviale acroamatico A.T.A dovrebbe sentirsi in dovere di rinunciare ai suoi veniali passatempi per agevolare il nostro lavoro? Giustissimo e sacrosanto. I cretini prevalgono sempre sui co.....i. Ma gli studenti (stupore!) se n'addanno e non se la bevono così scioltamente: è l'Europa che arriva, ragazzi (in Italia: a passi lenti, che ben s'intende e s'intuisce), è il mondo out of the door che incalza, e non così dolcemente... Staremo (con l'Alzheimer galoppante) a vedere...

domenica 24 maggio 2009

Eugenio Montale, Discorso all'Accademia di Svezia per il conferimento del premio Nobel per la Letteratura 1975

[... ] "Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democraticizzandosi nel senso peggiore della parola. L'arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l'uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L'esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare l'orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso? Ovviamente prevedo le obiezioni. Non bisogna confondere le malattie sociali, che forse sono sempre esistite ma erano poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione non permettevano di conoscere e diagnosticare la malattia. Ma fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione.Sotto lo sfondo così cupo dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano «datate» e il bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediato. Di qui l'arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex machina di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di coordinare gli allestimenti scenici, ma di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C'è una grande sterilità in tutto questo, un'immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia cosiddetta lirica è frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il sedicente poeta si mette al passo coi nuovi tempi. La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l'esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere l'aiuto dello psicanalista. Prevalendo l'aspetto visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto nuovo nella storia dell'estetica. Ciò non vuol dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudoversi privi di ogni senso. C'è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non sempre sono sprovveduti di talento. " [...] (estratto dal discorso di Eugenio Montale all’Accademia di Svezia per il conferimento del premio Nobel per la Letteratura 1975)

martedì 31 marzo 2009

Veleggiare attraverso la vita è, in ogni caso, difficile.
Anche se a volte appare entusiasmante, consuetamente inevitabile, talora fittiziamente agevole.
Più spesso è (realisticamente) faticoso, ingrato e frustrante.
Tuttavia, godo d'immeritato vantaggio: credo all'inatteso, alla sorpresa, ai miracoli, al mistero che s'annida sornione dietro all'ovvietà.
Me l'ha insegnato la musica.
Nel tempo e col tempo ho imparato.
Ci sono persone che attraversano la vita suonando, ironicamente ignare del loro irripetibile assolo e della gioia intensa che hanno regalato a chi (casualmente?) stava ascoltando.
Benvenuta la vita.

sabato 28 marzo 2009

Cualchi zornade fa o ai ricjatât, daspò tancj agns, un omp unevore impuartant par me. Un che mi à insegnât unevore. No robis, ch’a no coventin, ma scletece di vite, di umanitât e di veretât, cu la letare piçule - che ben s’intint - , ma ungrum miôr che balis e fufignis adimplen. Di cualchi an al vîf parie cuntun cancar, doi fiis maraveôs e une femine che, si viôt a colp, i ûl un ben di vite. O soi lât a cjatâlu cuntun gno “vieli” student di cuindis agns fa. Un di chei ch’e an menât ben, che no si son rincoionîts cul lâ dal timp, che no an dismenteât che vivi vuè e culì nol compuarte deventâ, di sante scugne, integrâts, borghês, storlocs e frustrâts ch’a fasin finte di nuie fincuanch’e rive l’ore che no si po plui contâle... Mi pareve ch’a no fossin passâts dibot dîs agns, ma cualchi zornade. Al fevelave cu la sgrimie e il snait ch’o m’impensavi benon, cu la culture, la passion e l’amôr pe vite, pe storie e pe glesie ch'o i vevi simpri cognossût. Ancje cuanche s’ingrintave, ancje cuanche s’induvinave la malincunie tai soi voi, sot la mascare di une ironie ch’e sfolmenave. Meni al è un predi ch’al à cjatât la sô strade. Menut al è – e al sarà simpri - un (vêr) predi. La Glesie, cu la letare grande, prin o daspò, e varà d’impensâsi di trop mâl che i à fat ai soi fiis e, soredut, di ce ch’e à piardût esiliant e ostracizant sence remission omps di cheste fate.

martedì 24 marzo 2009

Le parole, checchè se ne dica o pensi, hanno un senso. Gli amici sono persone importanti, essenziali, insostituibili: le sole che puoi, veramente, scegliere. A costo di sbagliare e pentirtene - amaramente e tardivamente - poi. Tuttavia, qualcuno resiste allo tsunami devastante dell’esperienza e della vita ed è meraviglioso sapere che potrai contare su di lui fino all’ultimo (letteralmente) respiro. Per questo trovo visceralmente intollerabile ed ipocrita che si possa abusare strumentalmente di questo termine per indicare – putacaso – persone che conosci un po’, che conosci poco, che conosci tramite, che conosci appena. “Semplici conoscenti”, esistenze intersecate temporaneamente, inavvertitamente: per lavoro, per hobby, per caso. Non necessariamente banali: il mistero è profondo, insondabile, prezioso e, talora, dalla labile contiguità dell’esistere sbocciano germogli durevoli di complicità. Facebook, però, mi violenta ad accogliere come “amici” tutti coloro che bussano all’ennesimo uscio multimediale, senza lasciarmi possibilità di autentica scelta. Finora ho abbozzato e abboccato, nell’ingenua speranza di padroneggiare il gioco senza indurmene schiavo, ma l’anagrafe mi ricorda che son nato ben prima di ieri (ahimè... ?!) e che c’è differenza fra gl’ingenui, i liberti, i meteci e gli schiavi... Igitur, non credo che durerò a lungo nella palude vischiosa degli angeli ignavi...

venerdì 20 marzo 2009

Alegorie (storiute cence cjâf ni cjaveç)

Siôr santul al scrîf, fasint la solite penze predicje morâl ai soi "afezionâts" letôrs (migo cagneris: al è un che, par solit, al fevele di se cul "nô" maiestatic!), che no bisugne lâ daûr al "capitalisim di cowboy" dai merecans, "comprâ cumò, comprâ cu la crisi, comprâ cence pore par scurtâ il timp de crisi, di chest martueri economic mondiâl", che "une volte, cuanche si viodevile grise, si strenzevin i cuardins dal tacuin e, prin che tes buteghis, si butave il voli tal bearç e tal ort. Par sparagnâ." E po daspò al zonte, cunvint e pinsirôs, che si scuen scomençâ "a vivi no dome cul tacuin ma ancje cul sintiment", "tornant a preseâ de vite no dome la robe di comprâ, ma soredut i valôrs di fonde" e che, biadelore, "forsit al sarès il câs di cjapâ ocasion di cheste crisi par dâi un dret a la nestre vite, par staronzâle di tancj pendacui di soreplui e par deliberâle di tancj pês di masse che le scjafoin." Peraulis che a confuartin e a scjaldin il cûr: mancomâl ch'o vin predis cussì ben sestâts, profonts e coerents! Po dopo, sabide stade, o meni mê fie a scout a Tarcint e, fasint manovre tal curtîl de canoniche cu la mê viele Nissan Serena di seconde man e un pêl malsestade (ma che à di tignî dûr ancjimò ben a dilunc!), mi scjampe il voli tal "garage" de canoniche: po no ti viòdijo - li che, par solit, al met a sotet la machine siôr santul - une Passat 2.0 Tdi gnove di scree, pôc sù pôc jù 30.000 euro(s)? La vecje, une Passat ancje chê, e jè lade fruçade (mi an dit daspò) intun incident, par furtune sence nissun damp pa l'autist. Cuissa parcè, mi ven inliment il gno vecjo plevan, pre' Checo, ch'al à simpri fruiât A 112, Uno e Punto fincuanche a colavin a tocs... E o mi visi benon ancje dal gno unic vêr pari spirituâl, pre' John, ch'al viazave cuntune 127, prin, cuntune Panda, daspò, che parie al à lassât la scusse vignint jù dal Lussari... Ancjimò orepresint no rivi adore di perdonâlu: mi à lassât masse dibessôl... E m'impensi ancje di un gnò cjâr amì di agnorums, cumò ancje lui predi, ch'al torzeone orepresint cuntune viele machinute, une Saxo, e che no s'insumiarès, nancje se i rivàs di ribe jù in regâl, di mudâle cuntune siore berline gnove e costose: par menâ atôr un biât predi dibessôl no covente une limousine! Siôr santul, benedet, tu tu scrivis (avonde) ben, ma jo o fâs fature a croditi...

sabato 14 febbraio 2009

Humanitas - Christianitas

Eluana è morta. Assassinata o accompagnata alla morte? Sacrificata spietatamente sull’altare di un’ideologia o pietosamente sottratta ad inutili sofferenze? Non lo so. Non so se sia “bene” o “male” la scelta della famiglia di Eluana, ma sono profondamente convinto che sia presuntuoso, vano e frustrante volerlo stabilire drasticamente e ad ogni costo. Questo giudizio morale appartiene a Dio (che credo, nella sua infinita misericordia, non sia così recisamente perentorio come gli uomini), non alla limitata ed inevitabilmente parziale coscienza e conoscenza degli esseri umani. Sono altrettanto convinto, però, che agire secondo ciò che, in tutta coscienza e dopo lunga (e, in questo caso, straziante) riflessione, si ritiene giusto per sè e per i propri cari, affidati alla nostra tutela, dopo aver sottoposto le proprie convinzioni al vaglio della giustizia umana e delle regole di convivenza civile della società in cui si vive, sia il massimo che si può richiedere ad un essere umano. La coscienza personale è inviolabile e sacra e nessuno può permettersi di attentarvi, per nessuna ragione e in nome di una qualsiasi ideologia o credo religioso. Ovviamente, questo non esime dall’errore: appunto perchè non siamo Dio. Se lo fossimo, non ci sarebbero dilaceranti dilemmi e drammi interiori e sapremmo sempre con naturale e limpida certezza qual è la Verità. Sarebbe auspicabile? Forse: ma, in questo caso, dove andrebbe a finire la nostra, per quanto malferma e incerta, libertà di esseri umani? Nel corso di questa tragica vicenda ho constatato ancora una volta, mio malgrado e con rinnovata costernazione, che molti, troppi uomini di opposti schieramenti si credono Dio e si autoattribuiscono il diritto di parlare in suo nome e di battagliare a suon di “verità” alternative e contrapposte, ma invariabilmente presentate come granitiche e incontestabili. Mi pare ci sia bisogno di maggiore umiltà da parte di tutti: i cosiddetti “laici” rispettino la Chiesa quando sostiene (auspicabilmente in modo non arrogante, presuntuoso e impositivo, ma lo stesso vale per i “laici”) i postulati della fede in Cristo e la sua concezione della vita umana; la Chiesa, la sua gerarchia e i suoi fedeli rispettino i “laici” ai quali non può essere imposta la fede, pena la negazione stessa della libertà umana e cristiana di aderire o meno all’invito di Cristo alla sua sequela. E, soprattutto, la Chiesa si tenga alla larga da ogni palese o malcelato tentativo di strumentalizzazione politica e di potere: Cristo non ha discusso per avere ragione dei suoi persecutori con la superiorità dialettica, non ha fatto intervenire le sue “legioni”, ma si è fatto uccidere nel modo più ignominioso, in croce come uno schiavo: eppure è così che il cristianesimo ha cambiato radicalmente la storia dell’impero romano ed è nata l’era cristiana... Invece, noi cristiani del terzo millennio, in sindrome da stato d’assedio, talvolta ci dimentichiamo che la nostra sola forza è lo scandalo di una sconfitta dal punto di vista umano, la kenosis umiliante di un uomo-Dio deriso e crocifisso, la “pietra scartata dai costruttori”: al contrario, con mentalità tutta secolare e mondana, preferiremmo avere sempre ed indiscutibilmente ragione e “vincere” culturalmente, politicamente e ideologicamente ad ogni costo... Tra qualche giorno, quando si sarà placata (spero) la gazzarra mediatica e l’oblio avrà prevalso, come inevitabilmente accade, sulle “indimenticabili” vicende degli uomini, andrò a pregare, insieme alla mia famiglia, sulla tomba di Eluana, a Paluzza, luogo che conosco bene e che amo. E’ tutto ciò che possiamo fare... e tutto non è poco.