Sì, devo spudoratamente
confessarlo: il mio “mestiere” di prof. l’ho scelto.
Avrei potuto decisamente fare
altro e talvolta mi chiedo, tra il lusco e il brusco, se la scelta sia stata, e
persista ad essere, la migliore.
Ultroneamente confesso che oggi
non saprei rispondere positivamente con la stessa gioiosa sicumera e determinazione
con cui avrei risposto qualche anno fa: sarà l’età che avanza, l’inevitabile
logoramento, il disincanto...
Devo anche riconoscere, tuttavia,
che coltivo passioni e interessi che hanno retto assai meglio all’assalto del
dubbio, dell’età e del tempo.
Non credo sia esclusivamente
colpa mia, per quanto riconosca che excusatio
non petita, accusatio manifesta... e sono inoltre ben consapevole di quanto
sia gratificante - per i più - accovacciarsi al rassicurante tepore dei
proverbi e degli stereotipi.
Insegnare è un mestiere difficile,
come allenare una squadra di calcio: misteriosamente (si fa per dire) e spesso
minacciosamente, la maggior parte degli italiani pretendono e vantano di sapere
come si debba allenare un mirabile ensemble
pedatorio e insultano – ovunque e comunque – chiunque ci provi a farlo professionalmente,
esibendo mirabili competenze in campo tecnico che sostanzialmente fanno
scompisciare dalle risate i veri competenti.
Nel calcio, però, la faccenda è oltremodo
seria (!): in fondo, si tratta di milionate di euro (massicciamente comprese scommesse
clandestine, truffe e dolcissime biscottose combine)
e sugli euro a palate – è ovvio, ragazzi! – non si ammettono discussioni: il
proprietario di una squadra di calcio non si sognerebbe mai di dare retta o
magari nominare allenatore chi urla insulti a voce più alta in un bar dello
sport . Forse...
Nella scuola, invece, no.
Lì, ognuno può
serenamente dire e millantare ciò che vuole, in modo del tutto indipendente dal
ruolo e dalle competenze specifiche che ha. Ad esempio un genitore, meglio se
munito di laurea in qualsivoglia modo conseguita e non attinente alla disciplina
d’insegnamento, può far presente al prof. che è un incompetente e un incapace [il
concetto bravamente sottinteso è: “la mia laurea vale quanto, anzi, ben più
della tua, t. d. c.! (scrivetemi in privato e vi rivelerò l’arduo scioglimento
della sigla...)”] e insegnargli come si fa ad insegnare.
La frase-tipo è: “Non voglio insegnarle il suo mestiere, ma...”:
Come ogni dilettante di psicologia
sa, ciò che davvero vuole dire l’interlocutore arriva dopo il “ma” e vanifica allegramente l’ipocritamente
bonaria pseudopremessa.
In genere lo scopo dell’ingerenza a gamba tesa nella professione altrui è la tutela ad oltranza e a
prescindere del pargolo/a (magari già alto/a un metro e novanta e con gli ormoni in
piena esplosione) che non studia un cazzo, non sta mai attento/a alle lezioni, non
porta i libri di testo, palesa assoluto disinteresse per qualsivoglia argomento
(che non siano le giovinette o i giovinetti dell’altro sesso o anche del
proprio, che ben s’intende).
Mammà (di solito i padri latitano
durante l’adolescenza scolare dei figli) non può ammetterlo e inorridisce
perchè il figliolino/a non corrisponde al ritratto idilliaco che lei amorosamente
coltiva tra le mura domestiche e la colpa, ovviamente, di chi è?
Lapalissiano: esclusivamente,
vergognosamente e dolosamente dell’insegnante che non lo/la capisce, non lo/la
motiva, non lo/la appassiona, non gli/le cambia il pannolino, non gli/le porta le
caramelle, non gli/le dice “bravo/a” quando fa una cazzata (e le fa spesso) e, così agendo,
l’ignorante malvagio insensibile docente danneggia in modo irreparabile la
preziosissima autostima del/della povero/a studentello/a fancazzista/a.
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