giovedì 10 dicembre 2020

Post di Stefano Rolli

  Riprendo questo post, che condivido in toto, dalla pagina Facebook di Stefano Rolli, un giornalista e disegnatore satirico de Il Secolo XIX di Genova che seguo da tempo per la sua intelligente e spesso amara ironia.

La fonte è questa:

https://it-it.facebook.com/rollipage/posts/3880385625328032?__tn__=K-R

 Angela Merkel, ribadendo ai tedeschi la necessità di misure drastiche per contrastare la diffusione del contagio, ha definito "inaccettabile" la cifra di 590 morti al giorno. La cancelliera più odiata dagli italioti ha pronunciato tra le lacrime (che i più benevoli dei suoi detrattori, soprattutto nostrani, avranno liquidato come patetica performance attoriale) parole che io non ho mai avuto il beneficio di udire proferite dalle donne e dagli uomini delle nostre istituzioni. Mai ho sentito una personalità dello Stato qualificare come inaccettabile il record dei nostri 60 mila morti.
Non può stupire, giacché questa ecatombe – venti volte le vittime dell’attentato alle Torri Gemelle del 2001 – non solo non è considerata inaccettabile, ma anzi perfettamente accettabile.
Certo, non viene detto così brutalmente. Viene suggerito per consequenzialità. Viene suggerito quando si ripete che i morti sono anziani, sono malati, sono soggetti fragili, hanno patologie pregresse. Viene insinuato quando si dice che ad ogni costo l’economia deve essere sostenuta e che le scuole devono riaprire. Questa è la comunicazione con la quale tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, ci inducono a relativizzare l’assenza di 60 mila concittadini. Perché la vita deve continuare.
Ma la classe politica è soltanto l’emanazione di una comunità, l’espressione del sentimento sociale di una nazione. Ed è questa nazione che nella schiacciante maggioranza considera quelle morti un prezzo equo da pagare perché sia salvaguardato il diritto al consumo e al commercio, all’apericena, al cenone di Natale, al veglione di Capodanno, alla corsetta e alla partitella di calcetto, alla scolarizzazione della propria progenie che la didattica a distanza minaccia di sottrarre al conferimento del Nobel, al soggiorno nella seconda casa, all’ammucchiata sulla spiaggia o sulle piste da sci. Antonella Boralevi ha ipotizzato che sia un transfert freudiano quello che ci suggerisce di continuare a occuparci degli affaracci nostri mentre migliaia di concittadini schiattano e schiattano male. Personalmente temo che alle radici di questo comportamento diffuso vi sia soltanto una barbarica ferocia da Rupe Tarpea.
Questo spregevole carattere nazionale, soltanto pallidamente rappresentato dai clichés con i quali in tutto il mondo veniamo con accondiscendenza disprezzati, è figlio di un’educazione civica che ci viene impartita sin dalla più tenera età tra le pareti domestiche e poi – de facto - nel mondo dell’istruzione e del lavoro. Il precetto secondo il quale "nella vita, ragazzo mio, se non vuoi che te lo mettano nel culo devi metterlo nel culo tu agli altri". Questa parabola, declinata a volte, ma non spesso, in maniera appena più raffinata di così, è il pilastro sul quale si regge il nostro deprecabile contratto sociale, affine non a quello teorizzato da Jean-Jacques Rousseau, quanto piuttosto a quello incarnato da Totò Riina.
Costeggiando i cancelli di un istituto paritario, non più di una settimana fa, sono stato incuriosito da un festoso vociare. Sporgendo la mano oltre il muro di cinta ho scattato una foto. L’immagine immortala una ventina di adolescenti impegnati in una partita di pallone nel campetto della scuola, ammassati gli uni sugli altri, ma – va detto – muniti di mascherina. Gli sport di contatto sono interdetti, l’attività fisica negli istituti scolastici è consentita soltanto in forma individuale. Ma chissà, siccome questa scuola è gestita da suore è possibile che gli studenti godano di un’immunità divina.
Un collega qualche tempo fa mi ha detto che quando tutto questo sarà finito ci vorrebbe una nuova Norimberga. Si tratta di un’affermazione davvero forte e, naturalmente, è soltanto una provocazione. Ma se volessimo per un attimo considerarla plausibile ci troveremmo immediatamente di fronte ad un enorme problema. Non basterebbero chilometri e chilometri di corda per i cappi.

Stefano Rolli

giovedì 26 novembre 2020

Non ce n'è per nessuno (... o per pochissimi)

 Non sono mai stato un fan appassionato della musica di Paolo Conte, anche se ho ascoltato molta della sua discografia.

Non è il mio genere, ma proprio per questo m'intriga: ascoltare ciò che non appartiene al proprio consueto orizzonte musicale apre itinerari inattesi, ti mantiene curioso e vivo, suggerisce svolte impensate e originali.

Nulla da eccepire, invece, sui suoi testi suggestivi, allusivi, evocativi, originalissimi: in Italia non ce ne sono molti altri capaci di scrivere come lui. 

Forse solo il miglior Vinicio Capossela...

Ascoltando brani così, si strabilia, si gode e ci si rende conto che sì, esistono le graduatorie: c'è chi sta più in alto e chi più in basso, senza nulla togliere alla dignità di chi sta più in basso.

Tuttavia, si deve anche riconoscere che, con musicisti così, decollare sembra un gioco da ragazzi...!



martedì 20 ottobre 2020

Claudio Lolli - Non chiedere

Claudio Lolli...

 Perchè non possiamo oggi ascoltare, cantare e suonare insieme canzoni così...?

 

sw


venerdì 15 maggio 2020

"I vues di Diu" e "Grispis" - Festival della Canzone Friulana 2010 e 2017

  Ho scoperto con stupore che sono stati finalmente resi disponibili su YouTube i video delle canzoni partecipanti alle recenti edizioni del Festival della Canzone Friulana.

  Sono sempre stato fin troppo autocritico e riascoltare o rivedere le mie canzoni mi lascia ogni volta spiazzato e perplesso, ma qui, devo dire peccando di superbia (e non è un bel peccare: vedi che fine ha fatto l'Ulisse di Dante, superbo fraudolento consigliere, nel canto XXVI dell'Inferno!), resto incantato e commosso.

  Forse è anche un po' merito mio, che ho scritto le canzoni, ma la gran parte del plauso va agli arrangiatori dei brani (Valter Sivilotti e Alessio Domini), all'orchestra e soprattutto alla meravigliosa interprete Megan Stefanutti! 

  E pensare che io, cantautore old style duro e puro, autore e interprete esclusivo dei miei brani, all'inizio non ero granché entusiasta all'idea di affidarli a qualcun altro...

  Fantats, perdonaimi, s'o podês 😊!




songwriter

martedì 21 aprile 2020

D'accordo, coronavirus, ma...

Provo un imprecisato disagio, uno spiacevole senso di inadeguatezza e di oscura tensione in questo periodo di dis-grazia pandemica.

Non credo sia esattamente ed esclusivamente paura: sono e resto un fatalista e so che "di alc si à di murî" come un tempo celiavano i vecchi, forse un po' banalmente o magari non troppo, perchè erano esistenzialmente assai più consapevoli di noi della finitezza della vita.

Può darsi, invece, che il malessere derivi da questo:

La società della sopravvivenza

Il timor panico dinanzi al virus rispecchia soprattutto la nostra società della sopravvivenza in cui tutte le energie vengono impiegate per allungare la vita. La preoccupazione per il viver bene cede il passo all’isteria della sopravvivenza. La società della sopravvivenza è peraltro avversa al piacere. La salute rappresenta il valore più alto. L’isteria del divieto di fumare è in fin dei conti isteria della sopravvivenza. La reazione di panico di fronte al virus svela questo fondamento esistenziale della nostra società. Se la sopravvivenza è minacciata, ecco che sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
La strenua lotta per la sopravvivenza subisce ora un inasprimento virale. Ci pieghiamo allo stato di eccezione senza opporre resistenza. La limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza colpo ferire. L’intera società si trasforma in una quarantena, variante liberale del lager in cui imperversa la nuda vita. Oggi il campo di lavoro si chiama home office. È solo l’ideologia della salute e della sopravvivenza a distinguerlo dai campi di lavoro del passato.
Nel corso dell’epidemia virale, la società della sopravvivenza mostra un volto inumano. L’Altro è prima di tutto un potenziale portatore di virus da cui bisogna prendere le distanze. Vicinanza e contatto significano contagio. Il virus aggrava la solitudine e la depressione. I coreani chiamano “corona blue” la depressione provocata dall’attuale società della quarantena. Alla lotta per la sopravvivenza va invece contrapposta la preoccupazione per il viver bene. Altrimenti la vita dopo l’epidemia sarà ancora più orientata alla sopravvivenza. E allora finiremo per essere come il virus, questo non morto che si limita a moltiplicarsi, a sopravvivere senza vivere.
La reazione di panico dei mercati finanziari all’epidemia è inoltre espressione di un terrore che cova già dentro di loro. Gli estremi fenomeni di rigetto tipici dell’economia globale la rendono molto vulnerabile. Malgrado il costante aumento degli indici borsistici negli ultimi anni, la rischiosa politica monetaria delle banche ha prodotto una forma di panico represso che attende uno sfogo. Il virus è forse solo la goccia che fa traboccare il vaso. Il panico dei mercati finanziari mette in rilievo, più che la paura del virus, la paura di se stessi. Il crash avrebbe potuto verificarsi anche senza virus. Forse il virus è solo l’avvisaglia di un crash ancora più grande.

Ci sarà una rivoluzione virale?

Žižek sostiene che il virus stia assestando un colpo mortale al capitalismo, ed evoca un oscuro comunismo. Crede persino che il virus condurrà alla caduta del regime cinese. Žižek si sbaglia. Tutto questo non accadrà. Ora la Cina venderà anche il proprio stato di polizia digitale come modello di successo nella lotta all’epidemia. La Cina dimostrerà con rinnovato orgoglio la superiorità del proprio sistema. Dopo l’epidemia, il capitalismo proseguirà con foga ancora maggiore. E i turisti continueranno a calpestare a morte il pianeta.
Il virus non rallenta il capitalismo, lo trattiene soltanto. Ci troviamo in uno stato di sospensione nervosa. Il virus non può sostituire la ragione. Inoltre, è possibile che in occidente finiremo per beccarci anche lo stato di polizia digitale su modello cinese. Come ha sostenuto Naomi Klein, lo shock è un momento propizio per il consolidamento di un nuovo sistema di potere. Dall’installazione del neoliberismo sono spesso scaturite crisi che hanno prodotto degli shock. S’è visto in Corea del Sud e in Grecia. Dopo questo shock virale è auspicabile che l’Europa non metta in piedi un regime di sorveglianza digitale alla cinese. In quel caso lo stato di eccezione, come teme Giorgio Agamben, diventerebbe la norma. Il virus riuscirebbe nella missione che il terrorismo islamico non è riuscito a portare a termine.
Il virus non sconfiggerà il capitalismo. La rivoluzione virale non avrà luogo. Nessun virus può fare una rivoluzione. Il virus ci isola. Non produce nemmeno un forte senso di comunità. Ora ognuno è preoccupato per la propria sopravvivenza. La solidarietà di prendere le distanze gli uni dagli altri non è solidarietà. Non possiamo lasciare la rivoluzione al virus. Speriamo invece che dopo il virus arrivi una rivoluzione umana. Tocca a NOI ESSERI UMANI dotati di BUONSENSO ripensare e limitare drasticamente il capitalismo distruttivo e anche la nostra devastante mobilità senza confini – per salvare noi stessi, il clima e il nostro bellissimo pianeta.
(© Byung–Chul Han - Traduzione di Simone Buttazzi)

 Ecco: Byung–Chul Han ha pensato e scritto precisamente quello che avrei voluto confusamente esprimere.
Lo ringrazio: io non ne sarei mai stato capace.

Qui l'articolo completo: https://www.avvenire.it/agora/pagine/byung-chul-han-filosofo-coronavirus-cina-corea-stato-di-polizia .

songwriter