Riprendo questo post, che condivido in toto, dalla pagina Facebook di Stefano Rolli, un giornalista e disegnatore satirico de Il Secolo XIX di Genova che seguo da tempo per la sua intelligente e spesso amara ironia.
La fonte è questa:
https://it-it.facebook.com/rollipage/posts/3880385625328032?__tn__=K-R
Angela
Merkel, ribadendo ai tedeschi la necessità di misure drastiche per
contrastare la diffusione del contagio, ha definito "inaccettabile" la
cifra di 590 morti al giorno. La cancelliera più odiata dagli italioti
ha pronunciato tra le lacrime (che i più benevoli dei suoi detrattori,
soprattutto nostrani, avranno liquidato come patetica performance
attoriale) parole che io non ho mai avuto il beneficio di udire
proferite dalle donne e dagli uomini delle nostre istituzioni. Mai ho
sentito una personalità dello Stato qualificare come inaccettabile il
record dei nostri 60 mila morti.
Non può stupire, giacché questa
ecatombe – venti volte le vittime dell’attentato alle Torri Gemelle del
2001 – non solo non è considerata inaccettabile, ma anzi perfettamente
accettabile.
Certo, non viene detto così brutalmente. Viene
suggerito per consequenzialità. Viene suggerito quando si ripete che i
morti sono anziani, sono malati, sono soggetti fragili, hanno patologie
pregresse. Viene insinuato quando si dice che ad ogni costo l’economia
deve essere sostenuta e che le scuole devono riaprire. Questa è la
comunicazione con la quale tutte le forze politiche, di maggioranza e di
opposizione, ci inducono a relativizzare l’assenza di 60 mila
concittadini. Perché la vita deve continuare.
Ma la classe politica è
soltanto l’emanazione di una comunità, l’espressione del sentimento
sociale di una nazione. Ed è questa nazione che nella schiacciante
maggioranza considera quelle morti un prezzo equo da pagare perché sia
salvaguardato il diritto al consumo e al commercio, all’apericena, al
cenone di Natale, al veglione di Capodanno, alla corsetta e alla
partitella di calcetto, alla scolarizzazione della propria progenie che
la didattica a distanza minaccia di sottrarre al conferimento del Nobel,
al soggiorno nella seconda casa, all’ammucchiata sulla spiaggia o sulle
piste da sci. Antonella Boralevi ha ipotizzato che sia un transfert
freudiano quello che ci suggerisce di continuare a occuparci degli
affaracci nostri mentre migliaia di concittadini schiattano e schiattano
male. Personalmente temo che alle radici di questo comportamento
diffuso vi sia soltanto una barbarica ferocia da Rupe Tarpea.
Questo
spregevole carattere nazionale, soltanto pallidamente rappresentato dai
clichés con i quali in tutto il mondo veniamo con accondiscendenza
disprezzati, è figlio di un’educazione civica che ci viene impartita sin
dalla più tenera età tra le pareti domestiche e poi – de facto - nel
mondo dell’istruzione e del lavoro. Il precetto secondo il quale "nella
vita, ragazzo mio, se non vuoi che te lo mettano nel culo devi metterlo
nel culo tu agli altri". Questa parabola, declinata a volte, ma non
spesso, in maniera appena più raffinata di così, è il pilastro sul quale
si regge il nostro deprecabile contratto sociale, affine non a quello
teorizzato da Jean-Jacques Rousseau, quanto piuttosto a quello incarnato
da Totò Riina.
Costeggiando i cancelli di un istituto paritario,
non più di una settimana fa, sono stato incuriosito da un festoso
vociare. Sporgendo la mano oltre il muro di cinta ho scattato una foto.
L’immagine immortala una ventina di adolescenti impegnati in una partita
di pallone nel campetto della scuola, ammassati gli uni sugli altri, ma
– va detto – muniti di mascherina. Gli sport di contatto sono
interdetti, l’attività fisica negli istituti scolastici è consentita
soltanto in forma individuale. Ma chissà, siccome questa scuola è
gestita da suore è possibile che gli studenti godano di un’immunità
divina.
Un collega qualche tempo fa mi ha detto che quando tutto
questo sarà finito ci vorrebbe una nuova Norimberga. Si tratta di
un’affermazione davvero forte e, naturalmente, è soltanto una
provocazione. Ma se volessimo per un attimo considerarla plausibile ci
troveremmo immediatamente di fronte ad un enorme problema. Non
basterebbero chilometri e chilometri di corda per i cappi.
Stefano Rolli
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