giovedì 19 dicembre 2013

Qoelet - Vanità etimologica dell'insegnante




Sì, devo spudoratamente confessarlo: il mio “mestiere” di prof. l’ho scelto.
Avrei potuto decisamente fare altro e talvolta mi chiedo, tra il lusco e il brusco, se la scelta sia stata, e persista ad essere, la migliore.
Ultroneamente confesso che oggi non saprei rispondere positivamente con la stessa gioiosa sicumera e determinazione con cui avrei risposto qualche anno fa: sarà l’età che avanza, l’inevitabile logoramento, il disincanto...
Devo anche riconoscere, tuttavia, che coltivo passioni e interessi che hanno retto assai meglio all’assalto del dubbio, dell’età e del tempo.
Non credo sia esclusivamente colpa mia, per quanto riconosca che excusatio non petita, accusatio manifesta... e sono inoltre ben consapevole di quanto sia gratificante - per i più - accovacciarsi al rassicurante tepore dei proverbi e degli stereotipi.

Insegnare è un mestiere difficile, come allenare una squadra di calcio: misteriosamente (si fa per dire) e spesso minacciosamente, la maggior parte degli italiani pretendono e vantano di sapere come si debba allenare un mirabile ensemble pedatorio e insultano – ovunque e comunque – chiunque ci provi a farlo professionalmente, esibendo mirabili competenze in campo tecnico che sostanzialmente fanno scompisciare dalle risate i veri competenti.
Nel calcio, però, la faccenda è oltremodo seria (!): in fondo, si tratta di milionate di euro (massicciamente comprese scommesse clandestine, truffe e dolcissime biscottose combine) e sugli euro a palate – è ovvio, ragazzi! – non si ammettono discussioni: il proprietario di una squadra di calcio non si sognerebbe mai di dare retta o magari nominare allenatore chi urla insulti a voce più alta in un bar dello sport . Forse...
Nella scuola, invece, no.
Lì, ognuno può serenamente dire e millantare ciò che vuole, in modo del tutto indipendente dal ruolo e dalle competenze specifiche che ha. Ad esempio un genitore, meglio se munito di laurea in qualsivoglia modo conseguita e non attinente alla disciplina d’insegnamento, può far presente al prof. che è un incompetente e un incapace [il concetto bravamente sottinteso è: “la mia laurea vale quanto, anzi, ben più della tua, t. d. c.! (scrivetemi in privato e vi rivelerò l’arduo scioglimento della sigla...)”] e insegnargli come si fa ad insegnare.
La frase-tipo è: “Non voglio insegnarle il suo mestiere, ma...”:
Come ogni dilettante di psicologia sa, ciò che davvero vuole dire l’interlocutore arriva dopo il “ma” e vanifica allegramente l’ipocritamente bonaria pseudopremessa.
In genere lo scopo dell’ingerenza a gamba tesa nella professione altrui è la tutela ad oltranza e a prescindere del pargolo/a (magari già alto/a un metro e novanta e con gli ormoni in piena esplosione) che non studia un cazzo, non sta mai attento/a alle lezioni, non porta i libri di testo, palesa assoluto disinteresse per qualsivoglia argomento (che non siano le giovinette o i giovinetti dell’altro sesso o anche del proprio, che ben s’intende).
Mammà (di solito i padri latitano durante l’adolescenza scolare dei figli) non può ammetterlo e inorridisce perchè il figliolino/a non corrisponde al ritratto idilliaco che lei amorosamente coltiva tra le mura domestiche e la colpa, ovviamente, di chi è?
Lapalissiano: esclusivamente, vergognosamente e dolosamente dell’insegnante che non lo/la capisce, non lo/la motiva, non lo/la appassiona, non gli/le cambia il pannolino, non gli/le porta le caramelle, non gli/le dice “bravo/a” quando fa una cazzata (e le fa spesso) e, così agendo, l’ignorante malvagio insensibile docente danneggia in modo irreparabile la preziosissima autostima del/della povero/a studentello/a fancazzista/a.

...

1 commento:

  1. Prof, i pues dome disi CORAGJO! Ch'a nol stei a fasi butâ ju, e ch'al continui come ch'al à simpri fat: i risultâs a si viodaran plui indenant (garantît)! :)

    Une (vecje?) studentesse
    (Anna Di Toma)

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