Finora non sono riuscito a scriverlo, ma, alla fine di luglio, sono entrato ad Auschwitz.
Erano anni che, penosamente e silenziosamente, studiavo, leggevo, scrivevo intorno all'inestricabile dramma dell'olocausto o shoah, che dir si voglia.
Si trattava di una visita di gruppo, organizzata e guidata, cui mi ero aggregato per l'insistenza dell'amico che mi accompagnava, mentre io avrei preferito andarci con mezzi pubblici e la libertà di fermarmi dove, come e quanto desideravo ...o magari fuggirmene subito.
Mi vergognavo. Non so spiegarmi precisamente per chi, perchè, per cosa, però mi vergognavo.
E mi vergogno tuttora: mi ossessiona la terribile sensazione che avrei potuto essere io (e magari potrei...?!) uno dei normali carnefici, dei banali burocrati della fabbrica di morti o, al contrario, uno dei milioni di untermenschen, di diversi, di impuri da schiacciare come schifose larve.
Ho scrutato a lungo le gigantografie delle foto scattate, contravvenendo a tassativi divieti, da alcuni ufficiali delle SS che ci tenevano - precisi, zelanti, orgogliosi - a documentare e a custodire nell'album di famiglia le fasi di un lavoro metodico, pulito, ben fatto...
I bimbi ebrei ungheresi che si tenevano per mano mentre sgambettavano verso la camera a gas, con i musetti un po' perplessi un po' curiosi, come tutti i bimbi della loro età, erano i miei tre figli...
Non si può spiegare. Non si può scrivere.
Poi la sorpresa. L'inaudito.
Coppie d'innamorati, gruppi di amici si facevano fotografare abbracciati e sorridenti davanti al portone d'ingresso di Birkenau, con i piedi ben piantati tra le rotaie che ancora lo attraversano.
Come in piazza S. Marco o a S. Pietro. Come sotto alle tre cime di Lavaredo. Come a Santo Domingo o alle Seichelles. Come a ground 0. Come in un qualsiasi cazzo di posto del mondo dove vai in ferie o in gita, a segnalare con la tua orina che ci sei passato e che quella fetta di umanità, per gl'istanti che ci hai scodinzolato, era tua e volentieri l'avresti contesa a chi ci abitava da secoli o ci aveva abitato per immensi, immondi, insanabili istanti.
Niente paura. Le guide erano affabili, preparate, cortesi: ti facevano entrare nell'orrido ombelico della stolida crudeltà umana con professionalità sbrigativa e plausibili facce da circostanza. Raccontavano particolari rintracciabili in qualsiasi libro di storia delle elementari, ma centellinandoli come la quintessenza dell'informazione storica. Ripetutamente ricordavano le migliaia di polacchi internati e uccisi nella costellazione concentrazionaria di Auschwitz, senza mai precisare se si trattava di ebrei polacchi e senza mai minimamente accennare all'inveterato antisemitismo di moltissimi polacchi che suggerì a Hitler e ai suoi collaboratori di costruire e attivare proprio in Polonia la più massiccia e organizzata macchina di sterminio che mai avessero concepito: in effetti, moltissimi sapevano assai bene cosa accadeva ad Auschwitz e nei campi-satellite, ma pochissimi tentarono qualcosa in favore di chi vi era rinchiuso.
Tutti fotografavano tutto, nonostante i visibili e ripetuti cartelli di divieto, perchè l'essenziale non era osservare, con attenzione ed intenzione, lasciarsi attraversare dall'assurda normalità di quella campagna angosciante e irreale, fiorita di blocchi e di baracche, di sentore persistente di morte e di presenze umane insostenibili al pensiero, ma documentare a sè e agli altri la propria narcisistica presenza e locupletare i pc di migliaia di scatti digitali tutti penosamente identici e inanimati.
I cessi - decine di fori rotondi disposti con angusta regolarità al centro delle baracche - riscuotevano un enorme successo fotografico, quasi più dei pancacci a tre piani. L'emozione e l'effetto patetico erano assicurati, quasi come all'Isola dei famosi.
Levi, Améry, Bettelheim, Frankl, Celan, Wiesel...
e milioni di altre comparse scomparse dalla storia e dalla memoria...
siete morti invano.
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